Clnai di fabbrica della OM-Porta Romana, posto di blocco della 114a brigata Garibaldi nei giorni della Liberazione, in Fondo Pinto Vincenzo

I giorni della Liberazione a Milano nelle fonti orali conservate in archivio

Di Dino Barra

Il ricorso alle fonti orali è pratica ormai consolidata per gli storici del Novecento, resi consapevoli da una lunga riflessione circa i rischi che un uso semplicistico di questo tipo di fonti comporta, ma anche circa il valore aggiunto che esse forniscono rispetto ad altro tipo di fonti (informazioni fornite dal linguaggio gestuale, dai silenzi, dal ricorso alle espressioni dialettali, ad esempio). Particolarmente fertile, oltre che obbligato, si è dimostrato il ricorso alle fonti orali per lo studio di uno dei passaggi più importanti e drammatici della storia del Novecento, la seconda guerra mondiale e, dentro di essa, la lotta di liberazione dal nazifascismo.

Con gli storici si occupano di fonti orali anche tutti quegli attori – individuali e collettivi, informali e istituzionali – il cui terreno d’azione, più che riguardare la ricerca storica, afferisce al campo di quella che con espressione sintetica possiamo chiamare Public History o uso pubblico della storia. Qui l’aspetto della conservazione e della trasmissione dei fatti resistenziali nella memoria collettiva prende spesso il sopravvento sulle pratiche stringenti della ricerca storica.

Tutto questo fa delle fonti orali uno dei terreni di maggiore confronto tra “politiche” della memoria e ricerca disciplinare, tra storia e memoria, confronto non privo di asperità polemiche ma che sembra aver trovato, nelle posizioni degli storici più equilibrati e avvertiti, un riconoscimento della loro reciproca importanza.   

L’attenzione alle fonti orali ha avuto una ricaduta importante sull’attività degli istituti di conservazione del patrimonio documentario che si sono trovati nella necessità di accogliere e tutelare questo nuovo tipo di materiale con una conseguente riflessione circa le modalità di conservazione e valorizzazione pubblica di documenti e supporti non tradizionali come audionastri, registrazioni, ecc.  

Troppo lungo e dispersivo inoltrarsi in tale tipo di questioni. È forse più interessante dal punto di vista di questo contributo sapere che Fondazione ISEC conserva un patrimonio di circa 150 testimonianze orali di ex partigiani, registrate su nastro magnetico, quasi tutte riversate su supporto elettronico, che attendono di essere indicizzate per essere messe a disposizione della ricerca ma che già nell’ascolto indotto dal riversamento hanno rivelato tutta la loro importanza documentaria.

Il corpus minoritario di questo patrimonio data dagli inizi degli anni Settanta del Novecento, gli anni di formazione dell’istituto, e si costruisce ad opera di ricercatori come Peppino Vignati e Giorgio Oldrini con lo scopo di raccogliere e conservare la memoria della guerra partigiana a Sesto San Giovanni che l’usura del tempo correva il rischio di far scomparire. La gran parte delle registrazioni proviene invece dalle ricerche di Luigi Borgomaneri.

Partigiani della 3° brigata Garibaldi gap, 1944- 1945, in Fondo Geminiani Athos

Luigi Borgomaneri, figlio di partigiano, è autore di saggi fondamentali sulla storia della Resistenza a Milano.[1] Ricercatore e collaboratore di Fondazione ISEC dalla metà degli anni Settanta, inizia in quegli stessi anni a raccogliere le testimonianze di chi aveva partecipato al moto resistenziale con l’esplicito obiettivo di capire come nasce la guerriglia partigiana a Milano, come prendono vita le formazioni militari (soprattutto quelle legate all’esperienza delle brigate Garibaldi), chi sono gli uomini che partecipano a questa esperienza, gli eventi, le tecniche, le modalità della guerriglia in città e in provincia. L’obiettivo è in buona sostanza quello di riportare alla luce un pezzo di storia milanese (e nazionale) del Novecento fino a quel momento rimasto in penombra o sottoposto a ricostruzioni prevalentemente agiografiche.

Il contenuto delle testimonianze risente di questo obiettivo: le domande insistono poco sulle biografie personali, i contesti familiari, i motivi che accompagnano la scelta dell’impegno resistenziale; è marginale anche l’attenzione verso la città, il clima di quelle settimane, le risposte della popolazione milanese nel corso dei mesi di guerra e dei giorni precedenti e successivi alla Liberazione. E tuttavia anche questi snodi emergono in molte delle interviste, a volte esplicitamente, altre volte nelle maglie del racconto quando questo tende a dilatarsi oltre i confini delle domande.

Clnai di fabbrica della OM-Porta Romana, posto di blocco della 114° brigata Garibaldi, 25 aprile 1945, in Fondo Pinto Vincenzo

Borgomaneri effettua le interviste in un arco di tempo che va dal 1976 al 2004, ma la gran parte di esse sono comprese nei primi dieci anni, con un contesto politico molto differente da quello attuale (c’è ancora il Partito comunista, ad esempio). Insieme agli scopi della ricerca che orientano le domande, questo è un dato di cui tenere conto nel momento in cui si ascoltano le parole dei testimoni. Influenza molto il contenuto delle risposte anche la personalità dell’intervistatore: il suo essere figlio di partigiano (ciò che facilita il contatto, l’empatia, la disponibilità al racconto) e il suo non essere iscritto al Partito (nel senso del Partito comunista: Borgomaneri proviene dall’esperienza del movimento studentesco) che procura chiusure e ritrosie soprattutto nella ricostruzione di eventi in cui l’organizzazione politica di riferimento degli intervistati ha un qualche tipo di responsabilità.

I testimoni sono in grandissima parte di sesso maschile; all’epoca dei fatti raccontati sono operai e tecnici, comunisti, residenti a Milano, ma non mancano coloro che vivono o fanno esperienza della guerra partigiana in provincia, soprattutto nei paesi del nord est come Sesto San Giovanni. La gran parte di loro ha tra i 18 e i 25 anni, alcuni sono di poco oltre i 30.

Al momento in cui raccontano, hanno superato i cinquant’anni, sono rimasti operai ma non manca tra loro chi è diventato artigiano o piccolo imprenditore, con una fedeltà al Partito e agli ideali resistenziali che sembra essere rimasta immutata.

Borgomaneri sottolinea la lucidità e la capacità di ricordare dei testimoni. Quel che queste persone raccontano è evidentemente parte di un bagaglio di esperienze incancellabile. Le informazioni fornite si rivelano in genere fondate, quasi sempre confermate e in alcuni casi rese più precise dalle verifiche incrociate. Colpisce l’onestà intellettuale di molti degli intervistati (la messa in luce delle incongruenze organizzative della lotta partigiana, i comportamenti poco ortodossi di alcuni resistenti o di alcune bande, l’avventatezza di alcune azioni), lontani da toni di tipo encomiastico, e lo spiccato sentimento morale che sottolinea la motivazione ideale che muove le decisioni più difficili e che dà vigore allo sforzo di memoria e alla rievocazione.

Brigata Garibaldi Sap 108° bis, distaccamento Garelli, viale Marelli in Sesto S. Giovanni, 1944-1945 c., in Fondo Loi Giuseppe

Dei giorni dell’insurrezione le interviste ricordano la spontaneità del moto. Esso inizia nel quartiere di Niguarda il 24 aprile e prosegue la mattina successiva con gli operai che hanno preso le armi (all’inizio poche, poi sempre di più con il disarmo di gruppi di fascisti e soldati tedeschi in fuga) e occupato le fabbriche ben prima dell’arrivo delle disposizioni insurrezionali da parte del Comando piazza Milano, come accade nel caso della Pirelli. Il 25 sera gli scontri non sono terminati e continuano nei giorni successivi.

Alla stazione di Greco un gruppo Sap assale il 26 aprile il presidio tedesco. L’azione avviene senza che si verifichino incidenti, rilevante è il bottino di armi e indumenti. A Villa Turro, zona Padova Monza, sede di un comando tedesco, la resa dei soldati nemici avviene il 27 aprile con l’intervento di un gruppo di operai della vicina fabbrica Magnaghi organizzati nella 130° brigata Garibaldi, non particolarmente numerosi e neanche bene armati ma decisi nell’azione (fanno ricorso alla minaccia di un carro armato e tagliano i fili del telefono isolando i tedeschi asserragliati nella struttura), sostenuti da un coraggio che il comandante della brigata confessa essere misto a paura. Fa da contraltare a questa confessione quella di un altro comandante partigiano che paragona lo stato d’animo che si vive nell’attesa dell’insurrezione a quello – fiducioso e al contempo preoccupato – di chi deve affrontare un’operazione chirurgica non esente da rischi nonostante la pianificazione dell’intervento.  Paura e tensione ma anche determinazione a farla finita col nazifascismo e la guerra sono comunque i sentimenti più diffusi tra gli operai asserragliati nelle fabbriche, in una città nei giorni dell’insurrezione semideserta, forse per questo assente dal racconto dei testimoni, che probabilmente fa fatica a rendersi conto dell’imminente liberazione. Non manca però nel racconto partigiano anche il riferimento all’esplosione di gioia che attraversa la città nei giorni successivi al 25 aprile e che provocherà, ironia della sorte, emozioni talmente forti da risultare in alcuni casi anche mortale.   

Partigiani armati in una strada bloccano l'accesso con un cannone, 1945 c., in Fondo Anpi Milano, sezione Calvairate

Si affaccia nelle parole di molti intervistati il riferimento alle deficienze organizzative. Nell’ottava divisione Garibaldi che raccoglie le brigate presenti nelle grandi fabbriche del nord est, dalla Pirelli Bicocca alla Breda, gli operai disposti a uscire fuori, intercettare il nemico che si ritira, affrontare il combattimento a viso aperto sono relativamente pochi ed esigue le armi in dotazione; grandi, invece le difficoltà a coordinare le azioni dei gruppi partigiani presenti nei vari luoghi di lavoro. Ciò che fa dire a Borgomaneri che l’insurrezione si estese e si affermò il 26, favorita dall’imminente capitolazione tedesca e dalla fuga di migliaia di fascisti da Milano, piuttosto che dalla forza degli insorti che ben difficilmente avrebbe potuto sostenere una decisa reazione di un nemico ancora superiore in uomini e mezzi […] l’insurrezione milanese non fu un’insurrezione di massa ma, caso mai, una insurrezione partigiana che assunse un carattere di massa grazie alla partecipazione di alcune migliaia di volontari delle ultime ore, in prevalenza operai, e di frange minoritarie dei restanti strati sociali. (Luigi Borgomaneri, manoscritto ad uso interno, agosto 2024)

Ritorna, in molte delle interviste, il tema della guerra che non finisce, della caccia agli esponenti fascisti locali nei giorni e settimane successive alla Liberazione, soprattutto quelli che si erano fatti artefici di prepotenze, delazioni, arresti e deportazioni di antifascisti. Un certo numero dei quali diventa vittima di esecuzioni più o meno sommarie mentre i prigionieri tedeschi vengono in genere consegnati agli Alleati o al comando militare cittadino. In alcune interviste le uccisioni di esponenti dello sconfitto Partito fascista vengono giustificate dallo stato di guerra ancora vigente, in altre si ammette che dietro alcune “eliminazioni” c’è stata effettivamente la difficoltà di valutare: ma in quel periodo era così, non c’era la possibilità di giudicare ciò che era giusto e ciò che era sbagliato.

Non manca negli intervistati il riferimento agli atti di violenza delinquenziale che si verificano nei giorni della Liberazione. Ma quegli atti sono condannati e anzi perseguiti con grande decisione dalle forze militari del movimento resistenziale che hanno il compito di garantire l’ordine pubblico in quei momenti convulsi.

Milano, posto di blocco con blindati, militari, civili dopo il 25 aprile 1945, in Fondo Colombo Cesare

Nelle parole dei testimoni partigiani è diffusa la paura non solo di essere uccisi ma anche di uccidere, la remora morale a compiere questo atto, l’attenzione estrema ad accettare lo scontro solo quando sia necessario e inevitabile ma anche l’accettazione e il compimento dell’atto quando in esso si riconoscano profonde ragioni di ordine politico e morale.

Queste ragioni hanno in genere a che fare con la consapevolezza di stare dentro un’impresa collettiva finalizzata a costruire una società diversa, più giusta di quella che si è contribuito a far crollare. Il tema del futuro – la costruzione di un futuro migliore – ritorna spesso nelle interviste. Nei giorni della Liberazione si presta l’orecchio a ciò che sta accadendo altrove in Europa, ci si sente più forti con un’URSS che ha sconfitto i nazisti a Stalingrado e che sta marciando verso Berlino, e fiduciosi che con quel formidabile sostegno anche in Italia si riuscirà a realizzare il socialismo. In alcuni casi, il futuro a cui si pensa è più immediato e concreto: gli organismi di fabbrica, raggiunto l’obiettivo della Liberazione, prendono subito contatto con i padroni, spesso scappati all’estero, con l’obiettivo di riportarli negli stabilimenti per riprendere la produzione e conservare il posto di lavoro. Ma anche in questi casi le aspettative indotte dalla lotta di Liberazione continuano a essere forti: alla Magnaghi gli operai chiedono la socializzazione della fabbrica, una richiesta accolta dal padrone che cede un terzo dei reparti agli operai con un esperimento di autogestione che durerà alcuni mesi. Nel frattempo i garibaldini hanno provveduto a nascondere le armi in un muro dello stabilimento di Turro, e la stessa cosa accadrà in molte altre situazioni.

Sfilata di partigiani, probabilmente a Sesto S. Giovanni,1945, in Fondo Geminiani Athos

Si potrebbe continuare a lungo con il racconto degli episodi e delle atmosfere che questo patrimonio di interviste mette a disposizione della conoscenza storica. Ma, al di là dell’interesse specifico per i fatti, l’ascolto delle parole dei testimoni (ci sono anche quelli che raccontano in stretto dialetto milanese) è prezioso anche perché restituisce un universo resistenziale popolato da gente comune che ha fatto cose che mai avrebbe pensato di fare, con errori e approssimazioni miste a coraggio, fede ideologica, determinazione. Un universo di antieroi, insomma, lontani dall’apologetica resistenziale, che della lotta di Liberazione mettono in luce anche aspetti meno noti e apparentemente marginali ma meritevoli di essere esplorati. È quello che Borgomaneri e altri storici hanno fatto e che sarebbe utile continuare a fare.

Quando è scoppiata l’insurrezione dov’eri?

Quando è scoppiata l’insurrezione io e la Rina Picolato siamo usciti da casa nostra in bicicletta per andare in largo San Babila dove dovevamo trovarci con l’avvocato, quello che stava lì in viale Campania, un avvocato che era editore, un compagno del Corticelli, sì Corticelli, il quale compagno Corticelli voleva, come CLN Alta Italia, voleva prendere rapporti con noi del Gruppo di Difesa della Donna. Siccome la Rina Picolato bazzicava, come dico, la direzione del Partito e conosceva questi compagni, io e lei in bicicletta andammo a incontrare Corticelli [….].

Era però il 25 aprile, proprio il 25 aprile, stiamo facendo corso Indipendenza e vediamo arrivare un gruppo di due ragazzi, tre ragazzi che urlavano a quelli che chiudevano il negozio: tenete aperto, c’era un fornaio, hanno bussato, hanno fatto aprire il negozio di prestinaio, perché la gente deve mangiare. E noi abbiamo detto: che strano, anche la Rina Picolato non sapeva niente. Arriviamo all’angolo lì, di piazza Tricolore, e c’è uno sbarramento di guardie di finanza. Allora la Rina Picolato dice: allora l’insurrezione è avvenuta, perché questi qui presidiano questo.

Io vado a scuola, perché dopo io vado a scuola, vado a scuola e c’è il direttore che è lì tutto…e comincio a vedere che i tram erano fermi. E dico: non vanno i tram stamattina? Allora domando a un tramviere e mi dice: no, adesso abbiamo altro da fare, come dire, dobbiamo andare a prendere i fascisti. Allora dico: direttore, guardi che adesso io pianto qui tutto e me ne vado perché ho da fare, perché dico, io vado dalla Lina Fibbi, dove vuoi che vada a prendere notizie. Infatti la Lina Fibbi mi ha detto che, difatti dopo un paio d’ore, i tram giravano, però all’Hotel Regina sparavano ancora contro i passanti e contro la gente, contro quelli che andavano lì. Io, come dico, non ho corso pericoli di questo genere, qui, perché dalle nostre parti non….hanno ammazzato un fascista, sull’angolo proprio da via Dall’Ongaro con piazzale Susa, un fascista hanno ammazzato. Ma non c’erano molte…

Trascrizione dall’intervista a Giovanna Boccalini,
maestra, partigiana, tra le fondatrici dei Gruppi di Difesa della Donna, a cura di Peppino Vignati


[1] Ricordiamo tra i suoi scritti: Due inverni, un’estate e la rossa primavera. Le brigate Garibaldi a Milano e provincia 1943 – 1945, Milano, Franco Angeli, 1995; Li chiamavano terroristi. Storia dei Gap milanesi (1943-1945), Milano, edizioni Unicopli, 2015.

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