Il diritto di mangiare un pasto caldo

Le mense aziendali

Di Alessandra Rapetti

Le origini della ristorazione aziendale vengono fatte risalire a Robert Owen e alla creazione attorno al cotonificio di New Lanarck in Scozia di una serie di servizi per il lavoratori¹. Si era all’inizio dell’Ottocento, e da allora dovette passare oltre un secolo prima che anche in Italia si ponesse il problema di offrire un locale dove i lavoratori e le lavoratrici potessero consumare il cibo che si portavano da casa, nel fagotto o in un pentolino. Fino a quel momento il “mangiare” era una necessità che veniva espletata dall’operaio in fretta, quasi sempre in piedi, in mezzo ai macchinari e con le mani sporche di grasso. In diverse imprese, a partire da quelle che sorgevano al di fuori dei centri abitati, cominciò a diffondersi la presenza di locali in cui gli operai potevano scaldare e poi consumare il cibo portato da casa. Sono i cosiddetti refettori, locali riscaldati e dotati di grandi tavoli di legno dove ci si riuniva per mangiare. Il passaggio ulteriore sarà la mensa, ovvero il servizio di preparazione del pasto da parte dell’azienda. Il diritto di consumare un pasto, cucinato appositamente in uno spazio dedicato e organizzato è stato l’ultimo stadio di una lenta conquista, direttamente proporzionale allo sviluppo industriale che ha significato un progressivo miglioramento delle condizioni di lavoro.

Fondazione ISEC nel 2015 ha dedicato una mostra Pausa pranzo. Cibo e lavoro nell’Italia delle fabbriche che attraverso una puntuale ricerca in diversi archivi di impresa ha documentato la diffusione di refettori e mense in parallelo al processo di industrializzazione. Un percorso accidentato che solo nel corso degli anni settanta ha visto riconosciuto il diritto alla mensa, arrivando anche a superare la tradizionale separazione tra operai e impiegati. La mostra era corredata da un piccolo catalogo, da cui riprendiamo alcuni passi che danno conto della ricchezza di prospettive a cui si può guardare alla questione delle mense aziendali: storia sociale, cultura materiale e della tecnica, antropologia…

«Non a caso, le condizioni in cui il pasto viene effettuato (nel refettorio, nelle mense collettive equipaggiate di cucine e pietanze calde, grazie alla ‘generosità’ dell’impresa oppure sulla base di accordi collettivi con i rappresentanti dei lavoratori, ecc.) col tempo diventano una posta in gioco capace di incidere sui rapporti tra lavoratori e datori di lavoro. In tal senso la mensa diventa un oggetto di confronto e di contesa nell’ambito delle configurazioni socio-organizzative diverse: dal paternalismo industriale alle moderne forme di welfare aziendale.

Le mense di fabbrica…rispondono a un doppio obbiettivo: razionalizzare la pausa pranzo, che diventa progressivamente parte integrante della giornata di lavoro, e assicurare le condizioni minime d’igiene. Inoltre, al pari di altre prestazioni sociali, esse rappresentano un mezzo utile per rinsaldare il vincolo di dipendenza/subordinazione dei lavoratori, migliorare il loro rendimento produttivo e, più in generale, ricercare il consenso stabilizzando le relazioni sociali…

La questione dell’alimentazione degli operai è vista innanzitutto come un problema di rendimento produttivo, in particolare in quei settori in cui il deficit calorico dei pasti, a causa dell’assenza di grassi e di carne, frena l’aumento della produttivit໲.

Durante il periodo bellico, con il razionamento alimentare la mensa diventa un servizio indispensabile ma non solo. Lavorare nella grande fabbrica diventa una garanzia di sopravvivenza che contribuisce a rafforzare il sentimento di appartenenza da parte dei lavoratori.

«All’indomani della Seconda guerra mondiale, la mensa è ormai parte integrante delle opere sociali ereditate dall’esperienza fascista, nell’ambito di un sistema di welfare aziendale…essa [la mensa] fa stabilmente parte del paesaggio industriale degli anni Cinquanta. Ciò nondimeno, in un contesto sociale esacerbato dalla concorrenza sindacale e dagli effetti della Guerra fredda, anche la mensa diventa un elemento di scontro tra le controparti»³.

Questo è vero in particolare nella più grande impresa privata italiana, la Fiat, come ci ricorda Giuseppe Berta, evidenziando come la pausa pranzo fosse anche un momento nel quale si mettevano a punte rivendicazioni e piattaforme sindacali: «nella ‘più grande fabbrica d’Italia’, attorno ai refettori si concentrava il momento determinante dell’attività sindacale primaria, che utilizzava la pausa della mensa come un’occasione fondamentale di contatto fra rappresentanze e lavoratori…Le mense perderanno quando l’azione sindacale conquisterà l’agibilità politica delle fabbriche dopo il 1968»⁴.

Mutati i tempi e la concezione del lavoro, le mense si riducono nello spazio, e da “arene” diventano parte integrante del corpo di fabbrica, in modo da consentire ai lavoratori un momento di pausa e di socialità.

Se, come detto, in un primo momento i lavoratori e le lavoratrici mangiavano in spazi separati, così come gli operai e gli impiegati e la dirigenza, le nuove mense diventano, a partire dagli anni Settanta, egualitarie. Tutti, dal direttore agli operai, mangiano lo stesso cibo agli stessi tavoli.

Allo stesso modo si evolve il luogo stesso della cucina in cui vengano preparati i pasti. Da una iniziale “cucina domestica” costituita da semplici banconi, tavoli e stufe a legna e a carbone si passa, dopo la guerra, a un vero e proprio processo di industrializzazione (parallelo a ciò che avviene nel mondo produttivo). La cucina delle mense diventa un luogo specializzato in cui vedono la luce nuove tecnologie e nuove professionalità. Grazie a importanti dotazioni elettromeccaniche (apparecchiature per la conservazione e la cottura del cibo; per il lavaggio e l’asciugatura delle stoviglie), grazie a nuove norme igienico-sanitarie le cucine diventano una realtà a sé. Scorporate dalle mense e dalla fabbrica, le cucine attrezzate sono ora aziende di servizio che riforniscono dall’esterno non solo le aziende ma anche altre realtà come scuole e ospedali⁵.

Chiudiamo riportando un brano di un’intervista a una lavoratrice della Falck, la grande acciaieria di Sesto San Giovanni, che evidenzia con chiarezza l’importanza della conquista del diritto alla mensa:

«Io facevo la mattina alla mensa dell’acciaieria – cominciavamo alle 11 il servizio – e alla sera lavoravo alla mensa del Vulcano, al decapaggio. Facevamo il turno anche alla sera perché bisognava garantire sempre agli operai di poter mangiare, perché questi venivano giù dalla mattina alle 3 ea lavorare, quindi alle 11 giustamente avevano già fame.

La mensa era un self-service molto attento, molto controllato: il primo turno erano quelli con le quarte squadre e alle 11 si cominciava il servizio, non si poteva sgarrare, e si lavorava fino alle 2 del pomeriggio. Avevamo cuochi interni, c’erano sempre presenti due cuochi e un aiuto cuoco. Avevamo anche una bella schiera di donne.

E poi lì ho cominciato a lavorare a qualche domenica, gli ultimi tempi, perché qualche squadra aveva cominciato a richiedere la mensa anche la domenica, giustamente perché loro lavoravano: prima si portava la “schisceta” la domenica, il classico pasto portato da casa, poi sono intervenuti i sindacati, hanno cominciato a fare le richieste, hanno trovato l’accordo col nostro principale e quindi a turno le donne facevano anche il turno la domenica, solo a mezzogiorno, la sera no»⁶.

Note

  1. G. Bertagnoni, Cibo e lavoro. Una storia della ristorazione aziendale in Italia, in «Storia e Futuro», n. 13, febbraio 2007 (https://storiaefuturo.eu/), p. 5.

  2. F. Ricciardi, Alimentazione e consenso: la mensa tra paternalismo e welfare aziendale, in Pausa pranzo. Cibo e lavoro nell'Italia delle fabbriche, Sesto san Giovanni, Fondazione ISEC, 2015, p.17.

  3. Ibidem.

  4. G. Berta, Il refettorio come arena pubblica, in Pausa pranzo, cit., p.23.

  5. R. Riccini, La fabbrica del cibo, in Pausa pranzo, cit.

  6. Testimonianza di Doriana Fiorenza Locatelli. Da “Farsi disfarsi trasformarsi. Deindustrializzazione e storie di lavoro a Sesto San Giovanni (1985-2015)”, progetto di Fondazione ISEC, Associazione A Voce e Università degli Studi di Milano- Dipartimento di Scienze della mediazione linguistica. Roberta Garruccio, Sara Roncaglia e Sara Zanisi, responsabili del progetto, hanno raccolto 45 videointerviste a operai, impiegati, dirigenti e sindacalisti di Sesto San Giovanni, oggi conservate nell’archivio audiovisivo della Fondazione ISEC, in parte confluite nel docufilm Il polline e la ruggine, per la regia di Riccardo Apuzzo (https://www.youtube.com/watch?v=KcF1GY0DBlY).

Articoli correlati