Tecnologia e resistenza operaia.

La lotta delle operaie Lebole di Arezzo nelle carte di Luigi Firrao, militante comunista

Di Monia Colaci

I temi al centro di questo numero di ISECracconta, la fabbrica, il lavoro e le sue trasformazioni, possono essere affrontati da molte prospettive, come ci sembra mostri anche la lotta condotta negli anni Sessanta dalle operaie della Lebole, importante azienda di confezioni di Arezzo. Al centro della vertenza era il tentativo di riorganizzare la produzione intensificando i ritmi del lavoro attraverso l’adozione del sistema MTM. Un tema che attrasse l’attenzione e l’interesse di Luigi Firrao, dirigente comunista romano¹ il cui archivio, conservato in Fondazione ISEC, offre un punto di osservazione privilegiato che consente di attraversare praticamente per intero la sua parabola intellettuale e offre al contempo uno spaccato sulle condizioni di lavoro di una realtà industriale dalle caratteristiche peculiari. 

Nata nel 1957 come azienda di famiglia, la Lebole negli anni Sessanta sperimenta la compartecipazione pubblico/privato trasformandosi in SPA, con capitale al 50% fratelli Lebole e al 50% Lanerossi cioè ENI. Negli anni questa convivenza sarebbe poi diventata sempre più difficile, e sempre più anomala sarebbe apparsa la presenza di un’azienda di confezioni in un universo di idrocarburi.  Ma nel 1962, quando viene siglato, l’accordo, che prospetta la costruzione di un ciclo integrato tessuti (Lanerossi)/confezioni (Lebole), si presenta come un buon affare per tutte le parti coinvolte: un’occasione di crescita per il marchio aretino; un sicuro sbocco di mercato per la Lanerossi; per le Partecipazioni statali un investimento su una realtà imprenditoriale in espansione, anche dal punto di vista occupazionale.

La manodopera Lebole è prevalentemente femminile, gli uomini vi svolgono soprattutto compiti di manutenzione dei macchinari. Le lavoratrici più giovani, 14/16 anni, provengono dalla campagna; le altre, appena più adulte, hanno alle spalle un apprendistato da sarte e in alcuni casi il tentativo di avviare un’attività in proprio, tentativo peraltro anacronistico in una fase in cui, grazie all’estendersi dell’industrializzazione, l’abito confezionato conquista quote crescenti di mercato. 

Ma la Lebole degli anni Sessanta si configura anche come una realtà di frontiera: è un’azienda di grandi dimensioni, 3000 addetti nel ‘63 che sfioreranno i 5000 nel ’72, in cui la presenza di un sindacato forte e organizzato può contare sulla spontanea combattività delle sue iscritte. In un volantino della CGIL Arezzo del 6 febbraio 1965 si legge: «noi vogliamo che una parte dei profitti, pagati dal maggior sfruttamento del lavoro, vada anche ai lavoratori. Sfondando alla Lebole potremo ottenere un buon contratto nazionale ed un salario adeguato al costo della vita»².

Stralcio di un'intervista a un'operaia dell'azienda

Quando nel 1965 L. Firrao comincia a interessarsi della vertenza della Lebole ha maturato un’esperienza politica e un’attrezzatura concettuale articolate: dal 1948 al 1953 ha seguito da dirigente del PCI le occupazioni delle terre nel Viterbese, esperienza che nelle interviste alle operaie Lebole si sarebbe tradotta in puntuali domande circa la loro provenienza sociale e l’eventuale retroterra contadino. 

Sempre su indicazione del partito, alla morte del padre, ha poi assunto la guida dell’Elettromedicali Firrao passando infine alla Misal, azienda produttrice di macchine utensili. Di se stesso racconta in un’intervista realizzata nel febbraio del ’67: «io, per il mio mestiere, per la mia professione che è anche quella di tecnico di produzione nel campo meccanico, mi trovo molto spesso a sapere cose […] che a livello politico o sindacale arrivano spesso molto dopo»³.

Le “cose” a cui Firrao fa riferimento sono le profonde trasformazioni nell’organizzazione del lavoro che negli anni Sessanta investono numerose realtà industriali italiane e dal ’65 anche lo stabilimento 3 della Lebole, il cosiddetto “reparto americano”. Per Firrao queste trasformazioni sono un passo al di là dello stesso taylorismo che, fissando lo standard produttivo sulla misurazione cronometrica del lavoratore migliore, partiva pur sempre dall’essere umano e che era possibile contrastare opponendo a misurazioni dell’umano altre misurazioni dell’umano. 

I metodi nuovi sono «quelli della minideterminazione dei tempi, cioè MTM […],  questi metodi nuovi sono ciò che io definisco, senza paura di dire parole troppo grosse, un fatto rivoluzionario, d’importanza storica, pari alla rivoluzione industriale»⁴. Il metodo MTM⁵, acronimo di Methods-time measurement, continua Firrao, «automatizza l’uomo e quindi tutte le azioni dell’uomo. […] L’azione lavorativa viene scomposta in movimenti elementari e ai movimenti elementari vengono assegnati tempi in centomillesimi di minuto, in base a tabelle precostituite. […] Queste tabelle non sono fatte sull’uomo reale che lavora, come fa il cronometrista o sull’analisi dei tempi con cui ti puoi battere; sono fatte a tavolino su un uomo che non esiste, sulla macchina uomo: il meccanismo umano. […] Davanti all’MTM per me i sindacati non hanno difesa. L’MTM si accetta o si respinge integralmente, non c’è strada intermedia»⁶.

Nelle interviste alle lavoratrici della Lebole, la griglia delle domande segue queste direttrici: com’è cambiata e quali effetti ha prodotto l’organizzazione del lavoro, di quanto è aumentata la produzione, come hanno agito e con quali risultati i sindacati, quale il ruolo del Partito comunista.

Le risposte sono in molti casi quelle attese: il nuovo metodo⁷ ha imposto movimenti rigidamente disciplinati per ogni parte del corpo, occhi compresi. Per saturare di capacità produttiva ogni frazione di tempo viene ad esempio predisposto un nuovo tipo di forbici che resta agganciato all’anulare, per evitare che le operaie vi appoggino i gomiti sono segati via i bordi del tavolo da lavoro. 

Aggiunge Angelina Martinelli, operaia e componente della Commissione interna: «perché non cronometrano mica a me personalmente, cronometrano la macchina, […] a me quando mi han chiamata in direzione per darmi la produzione assegnata dopo essere stata cronometrata, mi dissero “la tua macchina fa tanti giri al minuto”, mica mi dissero […] “per prendere quel pezzo ti ci vuol tanti minuti” dice “la tua macchina fa tanti giri al minuto”. Sicché in 8 ore cioè in 465 minuti devi fare 648 capi»⁸. 

L’impatto è durissimo: molte donne svengono, ricorrono pressoché quotidianamente a iniezioni calmanti o ricostituenti, si ammalano, e per chi non riesce «a tenere il ritmo imposto dal padrone l’alternativa sarà o le dimissioni per disperazione o subire continue pressioni»⁹. 

Nell’ottobre del ’65 una ragazza arriva a gettarsi sotto un treno e l’articolo che riporta il fatto deve aver colpito Firrao in modo particolare: è il primo documento che si incontra sfogliando il nostro fascicolo. 

Pur senza eliminarlo, agitazioni, scioperi, trattative e accordi avrebbero negli anni contenuto gli effetti più severi del nuovo metodo di organizzazione del lavoro.

«Ecco, con il controllo dei movimenti», racconta Franca Tamburi, operaia e presidente della Commissione interna, in un’intervista del 1969, «in parte sono stati applicati in parte no insomma, non c’è stata una disciplina diciamo ligia da parte delle operaie su questo profilo alcune si sono anche rifiutate perché hanno ritenuto che a decidere dei propri movimenti sia l’interessata e non l’analista […] su questo siamo riusciti abbastanza bene»¹⁰. Due anni dopo le prime interviste, la rilevazione dei tempi è effettuata con il vecchio sistema: «l’analista fa la rilevazione sulle varie operaie fa la media e su quella base viene stabilito il tempo; però se questo tempo non è a sufficienza per l’operaia per eseguire quella determinata mansione allora c’è la contestazione della fase, subentra la Commissione Paritetica¹¹ e riesce ad ottenere nella stragrande maggioranza dei casi […] la diminuzione dei capi e l’aumento del tempo»¹².    

Potremmo fermarci qui, registrando che la lotta delle operaie ha impedito che avvenisse, almeno ad Arezzo, la trasformazione dell’essere umano in macchina.

E tuttavia Luigi Firrao è scontento. 

Colpisce, leggendo le sue carte, l’inquietudine di un uomo del PCI che non si sente ascoltato dal proprio partito e assume a tratti le sembianze della biblica vox clamantis in deserto. 

Nella già citata intervista condotta da Bertelli, dice ad esempio: sul metodo MTM «mi sto battendo a tutti i livelli (del partito, n.d.r.) e […] devo dirti sinceramente che non ho cavato un ragno dal buco»¹³. E più in là aggiunge: «sull’Unità del 25/11 (1966, n.d.r.) titolino su una colonna: “Primo successo delle operaie Lebole: 10 minuti di riposo pagato”. Per forza se noi arriviamo a chiudere la stalla dopo che sono scappati i buoi, la nostra vittoria sarà questa […] questa è la grande vittoria ottenuta. […] Il metodo MTM è rimasto, il padrone in sostanza ha vinto»¹⁴.  

Riassumendo: non si darà alcun miglioramento al di fuori del rifiuto in blocco di questo sistema; le lotte vertenziali e i contentini finiranno anzi per legittimarlo; tutto sommato i sindacati fanno il loro mestiere e arginano l’onda di piena; la responsabilità di indicare alla classe operaia una prospettiva generale è del Partito comunista; alla Lebole ciò non è avvenuto. 

Questa la sua posizione.

Un sentire che consuona, non casualmente, con quello di Rossana Rossanda in quegli stessi anni. Si chiede Rossanda: «che cosa doveva essere il partito in azienda, una volta smessa la parte del sindacato che la faceva meglio da solo? Si limitava alla propaganda, portando in periferia i risultati del comitato centrale, e a raccogliere i bolli del tesseramento?»¹⁵

E Firrao, che cerca alleati, lo chiede alle leboline, le quali peraltro, esse stesse iscritte o simpatizzanti del PCI, non si mostrano sempre disponibili ad assecondarlo nella sua china polemica.  

La parabola politica di Luigi Firrao non si esaurisce nel Partito comunista, ma prosegue, dopo la radiazione, all’interno del gruppo del Manifesto. 

Ed è interessante che un numero tutto sommato ridotto di documenti fotografi pressoché per intero quell’itinerario; interessante e all’altezza di un intellettuale il cui profilo meriterebbe, ci sembra, di essere approfondito.

Note

  1. Per una nota biografica su Luigi Firrao vedi https://lombardiarchivi.servizirl.it/creators/7068

  2. Il volantino, conservato nell’Archivio CGIL di Arezzo è citato in Repek Claudio, La confezione di un sogno. La storia delle donne della Lebole, Roma, Ediesse, 2003, pag. 53

  3. Fondazione ISEC, Fondo L. Firrao, Busta 17, fascicolo 53, trascrizione intervista Gualtiero Bertelli a Luigi Firrao. Più che di una vera intervista si tratta di una sorta di auto-intervista per il tramite di Bertelli.

  4. Ibidem

  5. Nella definizione e analisi dell’MTM e degli altri metodi di organizzazione scientifica del lavoro, gli autori e i testi di riferimento di Firrao sono, a parte i classici di F. Taylor, gli studi dei coniugi Gilbreth, Frank e Lilian, e quelli di Maynard, Schwab e Stegemerten. Firrao cita inoltre una rivista specializzata in macchine utensili, Macchine e, a riprova della diffusione del metodo anche attraverso pubblicazioni alla portata di tutti, la pubblicazione Etas-Kompass  Mondo industriale moderno, l’analisi dei movimenti e lo studio dei tempi operativi,  di Italo Baldini.

  6. Ibidem

  7. Ad essere precisi, nei documenti Lebole il nuovo metodo non è mai citato come MTM, risulta invece come KSA, acronimo di Kurt Salomon Associate, l’azienda di consulenza statunitense incaricata dai Lebole di avviarne la sperimentazione in fabbrica. Vedi Repek C., op. cit., pag. 56

  8. Fondazione ISEC, Fondo L. Firrao, Busta 17, fascicolo 53, trascrizione intervista a Anna Maria Rubini e Angelina Martinelli

  9. Volantino della CGIL Arezzo dell’11 novembre 1965, in Repek C., op. cit., pag. 55

  10. Fondazione ISEC, Fondo L. Firrao, Busta 17, fascicolo 53, trascrizione intervista a Franca Tamburi

  11. Nell’accordo siglato tra le parti il 27 febbraio 1967 è prevista, tra le altre cose, l’istituzione di una Commissione Paritetica che ha il compito di intervenire nei contenziosi operaia/azienda. La Commissione è composta da sei membri: tre sono scelti dalle organizzazioni sindacali tra il personale Lebole, tre sono designati dall’azienda.

  12. Ibidem

  13. Fondazione ISEC, Fondo L. Firrao, Busta 17, fascicolo 53, trascrizione intervista Gualtiero Bertelli a Luigi Firrao

  14. Ibidem

  15. Rossana Rossanda, La ragazza del secolo scorso, Torino, Einaudi, 2005, pag. 317

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