Ritratto di Giulia Gadola

Un alto e strano senso del dovere.
Sulla figura di Giuliana Gadola Beltrami

Di Monia Colaci

«Pure, rimaneva questo “più alto e strano senso del dovere” da compiere, per usare le parole di Filippo. Dovere di combattere per la giustizia, dovere di non isolarsi, quando il mondo intero lotta e soffre; dovere di essere umani e dignitosi. Uno di fronte all’altro, soprattutto.»[1] 

Con queste parole tratte da Il Capitano, Giuliana Gadola Beltrami descrive la decisione sua e del marito di prendere parte al movimento resistenziale. Il libro, dato alle stampe nell’autunno del 1945, è dedicato a Filippo Beltrami, comandante partigiano e marito amatissimo; di questa figura l’autrice compone un ritratto morale e umano di grande bellezza, in una prosa scarna e trasparente.

Ma il testo, specie se riletto alla luce dell’intensa attività di ricerca che Gadola avrebbe realizzato e promosso negli anni, intorno alla Resistenza e in particolare a quella delle donne, è interessante anche per altri motivi. Colpisce specialmente la parola strano e occorrerebbe forse chiedersi cosa ebbe di strano quel senso del dovere. [2] 

A questa e ad alcune altre domande proveremo a dare risposta attraverso le carte delle nove buste del fondo Giuliana Gadola Beltrami che conserviamo in Fondazione ISEC.

Giuliana Gadola nasce a Milano il primo gennaio 1915, si diploma al liceo Manzoni nel 1933 e tre anni dopo sposa Filippo Beltrami, ufficiale di artiglieria e architetto. Entrambi appartengono alla buona borghesia milanese: i Gadola sono noti costruttori, Filippo è pronipote di Luca Beltrami, artefice, tra gli altri, del restauro del Castello Sforzesco.

Nel ’42, in seguito ai bombardamenti su Milano, la famiglia sfolla a Cireggio, presso il lago d’Orta ed è lì che sarà raggiunta dagli eventi del 25 luglio prima e dell’8 settembre poi. Nell’ottobre del ’43 una prima formazione partigiana della zona offre a Beltrami il comando, subito accettato; di lì a poco giungerà il riconoscimento del CLN. [3] 

Giuliana è al fianco del marito; l’andamento della guerra la costringe ad attese estenuanti talvolta, a correre rischi gravissimi talaltra, alle prese con equilibri complicati sempre. «Non ero giovanissima neppure allora; quando è iniziata la lotta partigiana avevo già marito e tre figli» [4], dice in uno dei rari riferimenti alle proprie vicende personali, in occasione di un suo intervento in una scuola. 

Il 13 febbraio 1944, nella battaglia di Megolo perdono la vita Filippo Beltrami e altri undici partigiani; Gadola è ricercata, si rifugia con i figli in Val d’Aosta. Qui darà un ultimo contributo alla Resistenza custodendo una grossa somma di denaro che Sandro Pertini aveva consegnato al comandante della brigata Matteotti della zona e che lui le affida, non potendola portare con sé.

Il giorno della Liberazione Giuliana sfila tra le strade di Torino insieme alla formazione partigiana del marito.

Partigiana decorata da ufficiale alleato

Nel 1953 aderisce al Movimento di unità popolare, nel 1964 si iscrive al Partito socialista italiano, dagli anni Settanta in poi la sua attività si svolge prevalentemente all’interno dell’ANPI in cui riveste ruoli direttivi e crea, insieme a Nori Pesce e Mirella Alloisio, il Coordinamento femminile nazionale. 

Si impegna intensamente nelle battaglie delle donne degli anni Settanta e nel 1973 sulla legalizzazione dell’aborto scrive insieme al figlio Sergio Veneziani [5] Il problema del controllo delle nascite in Italia. Inoltre, convinta che occorra «elaborare temi che abbiano attinenza alla sfera “alta” della moralità e del costume, che possano portare a progetti di una società nuova e migliore,   organizza incontri, studi, convegni» [6]. A questi vanno aggiunti libri, articoli, interventi nelle scuole e collaborazioni all’allestimento di mostre come Esistere come donna. Aspetti della condizione della donna e delle sue lotte in occidente dal '700 a oggi o alla realizzazione di opere quali il Dizionario delle donne lombarde. [7]

I temi attraverso cui si dispiega questa intensa attività sono molti: la Costituzione, la pace, il servizio militare femminile, il rapporto con la violenza, la dimensione internazionale della Resistenza e altri. Tuttavia, agli occhi di chi oggi legge i documenti d’archivio, appare chiaro che il punto da cui tutto origina resta la Resistenza. Difendere il divorzio significa ad esempio per Gadola fare esercizio di quella libertà che le donne hanno sperimentato per la prima volta nella lotta partigiana; allo stesso modo le battaglie per la pace non sono che un’evoluzione di quella “guerra alla guerra” che era stato il motto delle resistenti.  

La Resistenza, dunque. E in essa le donne.

Quante erano? Cosa facevano? Perché c’erano? Queste le domande sulle quali si concentrano gli interventi e le ricerche; a queste, man mano che un’identità tutta al maschile del movimento partigiano va consolidandosi negli studi e nel comune sentire, se ne sarebbe aggiunta un’altra: perché la Resistenza femminile è stata di fatto cancellata? 

In occasione dell’incontro Guerra, terrorismo, violenza: la parola alle donne, organizzato il 13 marzo ’82 dalla Consulta femminile comunale di Torino, Gadola Beltrami dice tra le altre cose: 

le partigiane sono le sole donne che abbiano fatto la guerra in tempi recenti. Non tutte hanno propriamente combattuto in armi, ma il loro intervento è stato sempre – occorre ricordarlo – in appoggio ad azioni di guerra o di guerriglia. La famosa “staffetta” altro non era infatti che un ufficiale di collegamento, se vogliamo chiamare le cose con il loro nome; e le informatrici, le infermiere, le donne addette alla raccolta e al trasporto di armi, indumenti, viveri e medicinali svolgevano compiti che in guerra sono normalmente svolti da uomini. È ormai assodato che nella Resistenza erano anche più numerose degli uomini, e questo per due ragioni; perché erano, per motivi contingenti, più adatti degli uomini a svolgere le mansioni cui abbiamo appena accennato; e perché erano ancor più motivate [8] degli uomini, essendo la loro oppressione sotto il fascismo ancor più cieca e pesante; quindi agli obiettivi di più generale liberazione aggiungevano, più o meno consapevolmente, obiettivi di specifica e personale liberazione in quanto donne. [9]

La lunga citazione offre una sintesi, necessariamente parziale e incompleta, della risposta a cui è pervenuta dopo anni di intensa ricerca. Nella seconda metà degli anni Settanta, infatti, con l’obiettivo di far emergere un universo, come lei scrive in più occasioni «collettivo e anonimo» [10], Giuliana si impegna in una ricerca meticolosa delle donne che hanno partecipato alla Resistenza. Per farlo attiva tutti i suoi contatti, spedisce centinaia di questionari, realizza decine di interviste, predispone schedari e infine nel 1981 pubblica, insieme a Mirella Alloisio, Volontarie della libertà.

Questionario inviato alle partigiane

Materiali preziosi, che mantengono l’ordine dato loro dalla stessa Gadola Beltrami e che, conservati nei nostri archivi dopo due diversi versamenti, sono oggi a disposizione di tutti.   

Nella premessa a Volontarie della libertà, le autrici scrivono: «oltre alle dimensioni del fenomeno, quando lo si osservi da vicino, desta meraviglia la sua qualità, perché in esso si trovano in germe discorsi, speranze, errori e malesseri che il tempo non ha ancora potuto risolvere, che sono stati soffocati o ignorati, ma che restano il sottostrato delle attuali battaglie delle donne». [11]  

La rivendicazione, dunque, di una continuità tra femminismo e Resistenza, che del resto emerge in tanti altri luoghi nelle carte di Gadola. 

I rapporti tra femminismo e Resistenza sono complessi e non mancano reciproche diffidenze. 

Da un lato, nonostante le indiscutibili conquiste dell’immediato dopoguerra, il diritto di voto, la Costituzione, l’accesso all’istruzione, agli occhi delle femministe degli anni Settanta le partigiane appaiono più “madri” che “sorelle”. Colpisce in negativo l’abbandono, a volte repentino a volte graduale, di quei terreni su cui era stato realizzato lo “sconfinamento” dai ruoli tradizionali. Un arretramento e una smobilitazione che trovano indiretta conferma anche nelle carte del fondo Gadola Beltrami: molte tra le donne che vengono contattate per la realizzazione di Volontarie della libertà aprono le loro lettere con frasi quali “non pensavo alla Resistenza da molto tempo” o “sono fatti che avevo quasi dimenticato” e così via.

Lettera di Taina Dogo, una delle molte partigiane contattate da Giuliana per il libro Volontarie della libertà

La stessa Gadola ne è pienamente consapevole; nella relazione sulla partecipazione femminile alla lotta di liberazione per il convegno La donna e la Resistenza, dice: 

Ci rimane da chiederci […] che cosa sia accaduto di tutte queste donne a guerra finita. Alcune di esse parteciparono alla vita politica, ma rappresentano ancora una volta l’eccezione. Le altre tornarono a casa. […] Certamente non erano più quelle di prima, ma la maggior parte di esse fu risucchiata da quella grande piovra che è la famiglia, dove ripresero il loro posto, chinando il capo alla necessità e all’autorità. Alla secolare autorità dell’uomo. E dei preti. [12]

È pur vero che molte partigiane prendono le distanze dal femminismo senza nascondere un autentico fastidio verso le giovani e il loro linguaggio. 

D’altro canto, è nel corso degli anni Settanta e nel cuore del femminismo che matura la ri/scoperta del ruolo delle donne nella Resistenza.  

Su Patria, il periodico dell’ANPI, Giuliana scrive una recensione a La resistenza taciuta di Anna Maria Bruzzone e Rachele Farina, testo cardine di questa ri/scoperta. Tra le altre cose, dice: 

chi va ripetendo che ai giovani ormai la Resistenza non interessa più, riceve qui un’altra solenne smentita, perché questo volume, curato da due donne giovani […] rivela un’attenzione, una partecipazione e un interesse appassionato non solo per la “questione femminile” – che è la questione del giorno – ma anche per la “questione Resistenza”. 

In realtà ai giovani non interessa la retorica della Resistenza, e la storia bell’e fatta e chiusa entro schemi prestabiliti che tendono a mummificarla e che essi hanno ragione di rifiutare. [13] 

Le autrici le avrebbero poi inviato un biglietto di ringraziamento per aver compreso lo spirito della ricerca.

Biglietto di ringraziamento di Rachele Farina e Anna Maria Bruzzone

Torniamo dunque alle domande iniziali.

Cos’ebbe di strano per Giuliana Gadola Beltrami il prendere parte alla Resistenza? 

Si possono formulare alcune ipotesi.

Strano potrebbe esser stato, come per tutte, quello sconfinamento da ruoli codificati cui si accennava più su, oppure la convinzione di rischiare tutto per un dopo nel quale lei e le donne avrebbero forse avuto occasione di dispiegare la propria personalità, o la percezione di combattere accanto agli uomini ma in modi e per motivi in parte uguali in parte diversi da quelli degli uomini. Resta in ogni caso il senso di aver vissuto un’esperienza di per sé non auto-evidente; nella visione di Giuliana e sin da subito, l’aver preso parte alla Resistenza non spiega tutto, non basta a intenderne la portata. Su quell’esperienza occorrerà, sembra suggerirci il ricorso al termine “strano”, studiare e interrogarsi; quell’esperienza occorrerà problematizzare mettendola a dialogo con la contemporaneità, qualunque forma essa prenda.     

La citazione con cui abbiamo aperto si conclude poi con le parole: uno di fronte all’altro, soprattutto. 

Capitò a Giuliana Gadola la sorte di avere per marito Filippo Beltrami, una figura leggendaria della Resistenza italiana; dei suoi sentimenti verso quest’uomo, che ci appaiono immutati nonostante il trascorrere del tempo, non c’è forse testimonianza migliore della sua stessa firma nella quale i due cognomi, Gadola e Beltrami, sono sempre affiancati. 

Tuttavia, riandando alla decisione di entrare nella Resistenza, Giuliana rappresenta se stessa di fronte a Filippo, non al suo seguito; una rappresentazione che è quasi un annuncio e che avrebbe trovato realizzazione in tutto lo svolgersi della sua vita.

Note

[1] Giuliana Gadola Beltrami, Il capitano, Milano, Edizioni Avanti!, 1964, pag. 8

[2] L’espressione, come già detto, è di Filippo Beltrami che la usa all’interno di una lettera inviata alla moglie il 9 novembre 1943 e riportata in ivi, pag. 61. In questa sede ci interessa in quanto, pur non essendo stata formulata da Gadola, viene da lei senz’altro adottata.

[3] In capo a poco tempo la figura del Capitano avrebbe acquistato contorni leggendari. La sua formazione cresce velocemente, persino troppo, se ne rende conto lo stesso Beltrami. «La formazione Beltrami era cresciuta di troppo e troppo in fretta. In tal modo aveva finito con l’accogliere e aggregarsi numerosi elementi non conosciuti abbastanza, o inesperti nell’uso delle armi, o moralmente e fisicamente inidonei ad affrontare i disagi e i rischi della guerriglia partigiana contro avversari del calibro dei tedeschi.» Giovanni Battista Stucchi, Turnim a baita. Dalla campagna di Russia alla Repubblica dell’Ossola, Milano, Vangelista editore, 2011, pag. 272.

[4] Fondazione ISEC, Fondo Gadola Beltrami, Busta 7, Fascicolo 30

[5] Giuliana aveva sposato in seconde nozze Guido Veneziani, anch’egli partigiano.

[6] Relazione al Consiglio nazionale ANPI di Rimini – 16 e 17 novembre 1989, in Fondazione ISEC, Fondo Gadola Beltrami, Busta 1, Fascicolo 2

[7] Tanto la mostra quanto il dizionario vengono concepiti e discussi all’interno dell’associazione Esistere come donna del cui nucleo storico fa parte anche Giuliana.

[8] La sottolineatura è nel testo.

[9] Fondazione ISEC, Fondo Gadola Beltrami, Busta 7, Fascicolo 30

[10] L’espressione “collettivo e anonimo” ricorre frequentemente negli interventi di Gadola. Tra i tanti riportiamo un brano dall’intervento preparato per un incontro previsto per il 12 aprile 1975 a Brescia: «questa naturale disposizione al lavoro comune spiega quell’aspetto collettivo e anonimo della resistenza femminile di cui si è parlato e che diede vita non solo a una fitta rete di oscura collaborazione da donna a donna e da casa a casa, ma anche a grandi azioni di massa a partecipazione largamente femminile o esclusivamente femminile, come gli scioperi delle mondariso in Emilia o le storiche manifestazioni delle donne di Carrara, che paralizzarono per tre giorni la città». Il documento si trova in Fondazione ISEC, Fondo Gadola Beltrami, Busta 7, Fascicolo 30

[11] Mirella Alloisio, Giuliana Beltrami, Volontarie della libertà, Milano, Gabriele Mazzotta editore, 1981, pag. 7

[12] Fondazione ISEC, Fondo Gadola Beltrami, Busta 7, Fascicolo 30

[13] Fondazione ISEC, Fondo Gadola Beltrami, Busta 9, Fascicolo 35, sottofascicolo 2

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