Per Peppino Vignati (21 maggio 2017)
Sono molto dispiaciuto di non poter essere presente a questa giornata dedicata a Peppino Vignati. Vorrei però ricordarlo anch’io con alcune parole perché ho intrattenuto con lui un’amicizia per quasi cinquant’anni e con lui ho diretto l’Istituto per circa sedici anni.
Un’amicizia quindi legata al lavoro e alla ricerca: che non escludeva certo una grande confidenza personale, ma che aveva al suo centro i temi della ricerca storica e del suo significato di impegno civile. Da questo punto di vista Peppino è sempre stato una persona di limpida fedeltà alle sue scelte intellettuali e politiche; probabilmente in alcuni casi non senza asprezze, temperate però dalla disponibilità al dialogo soprattutto quando la discussione si trasferiva sul piano delle interpretazioni storiche e della ricerca. Per quanto fosse persona di cultura, ho sempre avuto l’impressione che lui non si sentisse un intellettuale, ma che guardasse al mondo della cultura con il rispetto e l’intransigenza che un tempo erano proprie della classe operaia e dei militanti del movimento operaio. C’era in lui una coscienza eccessiva dei suoi limiti e questo lo ha certo frenato e gli ha impedito di produrre scritti che dessero piena la misura delle sue conoscenze e delle sue intuizioni storiografiche; ma si può dire che la sua opera è presente in gran parte delle ricerche dedicate al mondo operaio e alla Resistenza dell’area milanese.
Un’ultima notazione vorrei aggiungere. Anche se Peppino aveva al riguardo un pudore (velato anche da ironia) non posso non ricordare che in tutto il suo lavoro lui ha avuto in Katia Colombo, sua moglie, una presenza vigile e stimolatrice; lei, cha ha condotto ricerche di non piccolo spessore sulla cultura in periodo fascista (ha elaborato un ponderoso volume su “Corrente” non ancora edito) e che, quando Peppino è crollato, non ha più retto la tensione e sembra essere caduta in un sonno non sappiamo se definitivo.
È giusto quindi ricordarli insieme, Katia e Peppino: penso che Peppino ne sarebbe stato contento.

Gianfranco Petrillo, Peppino Vignati e la Resistenza (27 maggio 2017)
Peppino Vignati apparteneva alla generazione che fu detta della “nuova Resistenza”, a quella schiera di ragazzi e ragazze che nel 1960 si rivoltò contro il governo Tambroni sostenuto dai veterofascisti, lo cacciò via e seppellì per sempre ogni nostalgia di vecchi regimi. Quel movimento innescò la serie di Lezioni su fascismo, antifascismo e Resistenza che si tennero in varie città d’Italia, il disseppellimento delle memorie partigiane artatamente soffocate dal centrismo, la fioritura degli Istituti di storia della Resistenza in un gran numero di province italiane, delle rievocazioni e degli studi di storia contemporanea italiana. Vignati è un esempio paradigmatico della compenetrazione tra memorie familiari e locali, ideologia politica e maturazione intellettuale che contrassegnò quella stagione, prima – è bene sottolinearlo – ben prima dell’ondata sessantottesca. Ma in lui, autodidatta, convivevano tuttavia due aspetti che lo rendevano straordinario: il segno inevitabilmente profondo dell’appartenenza a un nucleo forte non solo di memorie ma di costruzione consapevole dell’antifascismo e del movimento operaio quale era Sesto San Giovanni; e una grande apertura mentale, una sentita capacità di far propri gli esiti avanzati della riflessione sia politica che storiografica. Colse subito che Sesto era un punto nevralgico di un’area più vasta, sottolineando lui stesso in più occasioni la provenienza forestiera di forti nuclei, tecnicamente qualificati e politicamente coscienti, della classe operaia sestese come salutare antidoto ai supini “paolotti” brianzoli e bergamaschi che ne costituivano la maggioranza. E colse che la Resistenza era, come oggetto di studio e di conservazione documentaria, solo un punto di partenza e che, per comprendere gli stessi sviluppi di quanto accadeva in quegli anni tormentati detti “di piombo”, occorreva superare con razionalità ogni reducismo nostalgico, ogni tentazione di coltivare i miti delle occasioni mancate.
Il primo impegno del gruppo di ricercatori che fu alle origini della creazione dell’Istituto era rivolto proprio a uno di questi miti, quello della breve stagione dei consigli di gestione quale frutto della lotta partigiana, tra 1945 e 1947, presi a modello per nuovi traguardi politici e sociali. Quel tema si trasformò però, sotto l’impegno degli studiosi, in un proficuo stimolo a vedere più in prospettiva e in termini più ampi la collocazione della Resistenza nella storia dell’Italia contemporanea dal fascismo al miracolo economico. Proprio nello stesso anno, il 1978, in cui Guido Quazza proponeva la sua utilissima riflessione su Resistenza e storia d’Italia, l’Istituto, diretto allora da Adolfo Scalpelli, pubblicò La ricostruzione nella grande industria, che allargava la ricerca a tutto il “triangolo industriale” (Milano, Torino e Genova), e organizzò il convegno su Milano fra guerra e dopoguerra. Per Vignati, come per tutti noi, la collaborazione con allora ancora giovani studiosi del calibro di Luigi Ganapini e Giulio Sapelli e di luminari affermati come Valerio Castronovo, solo per fare qualche nome, fornì la molla propulsiva per guardare più avanti e più in grande. Ma fu Vignati, praticamente da solo (ben modesto era l’aiuto che seppe dargli chi scrive), a impegnarsi da allora in poi con tutte le sue forze a recuperare alle nuove prospettive di ricerca la base documentaria di cui si avvertiva il bisogno, sia in direzione delle fabbriche e di altre realtà lavorative dell’intera area metropolitana milanese sia in direzione dei movimenti e delle istituzioni anche esterni alla tradizione “rossa”, compresi, ovviamente, gli stessi cattolici, con il naturale corollario della costruzione di una visione di lungo periodo.
Era l’impegno di un militante, consapevole del punto cruciale a cui era giunto in quegli anni, con l’assunzione di responsabilità di governo in tutte le grandi città italiane, il movimento operaio organizzato, che cominciava a chiamarsi più semplicemente e genericamente “sinistra”. Lì seppe coniugare quei primi studi sull’esperienza di cogestione aziendale con il nuovo fronte di riflessione che era destinato a far mutare profondamente la natura stessa del movimento politico al quale apparteneva. Grazie alle acquisizioni di un’imponente massa documentaria, da lui fortemente volute e perseguite, ormai l’Istituto sestese aveva assunto un ruolo di primo piano nella contemporaneistica italiana. Negli anni ottanta, la fabbrica, terreno di coltura di quella capacità di impegno solidale e collettivo che Giovanni Bianchi ebbe a definire la “sestesità”, cominciava a scomparire dalla geografia cittadina, ponendo problemi e compiti nuovi agli amministratori locali, ma anche inquietudini di ricerca politica. Allora fu il suo intuito a fornire un significato nuovo e originale al dovere istituzionale di riflettere sulla storia sestese, e in particolare sulla storia della Resistenza sestese. Ne sorse una giornata di memorie e di studi testimoniata dal volume, da lui curato, che porta il significativo titolo I ribelli al governo della città. Sesto San Giovanni 1944-1946: “niente di più – scrisse nella dedica di una copia a un’amica – che una nuova versione delle favole che mi hanno raccontato da bambino”. Ma in realtà molto di più, un fondamento nuovo per il rapporto fra quelle favole e la concretezza istituzionale municipale.
Vignati, che amava ricordare spesso le origini anarchiche, bakuniniane, del movimento operaio italiano, aveva invece un forte senso delle istituzioni: il comune, il partito, il sindacato, lo stato. Ma soprattutto di questa istituzione, l’Istituto milanese per la storia della Resistenza e del movimento operaio divenuto oggi Isec, a cui ha dedicato per quarant’anni tutta la sua intelligenza, la sua passione, la sua immensa capacità di lavoro. I presidenti e i direttori passano, i sindaci passano, gli assessori alla cultura passano, gli stessi compagni di lavoro passano. L’Istituto resta. Questo è il suo capolavoro di intellettuale e di militante, di intellettuale militante.