Floriana Maris
Studentessa universitaria all’epoca della strage di Piazza Fontana, oggi avvocato penalista a Milano e Presidente della Fondazione Memoria della Deportazione.
Qual è il rapporto di Floriana Maris con la strage di Piazza Fontana?
Figlia di Gianfranco Maris – comandante partigiano, deportato politico, avvocato e poi senatore comunista – Floriana, allora studentessa, ricorda con nettezza il racconto del padre. Nel tardo pomeriggio del 12 dicembre 1969, subito dopo l’esplosione della bomba, egli si recò nei pressi di Piazza Fontana e venne aggredito da un gruppo di fascisti che lo riconobbero mentre osservava la situazione.
Con quali criteri ISEC ha deciso di intervistare Floriana Maris?
ISEC ha voluto raccogliere la testimonianza di una giovane che visse direttamente quella stagione complessa, segnata da contraddizioni e forti tensioni: l’autunno caldo, le lotte operaie del 1968 per nuovi diritti, l’emergere del movimento studentesco. Maris ricorda quegli anni come un periodo attraversato da aspettative e possibilità, ma anche minato da una lunga serie di attentati, diciassette solo nel 1969. Fu in quel clima che, appresa la notizia dell’esplosione, il padre si recò in Piazza Fontana per verificare la situazione e portare solidarietà, trovandosi di fronte gruppi contrapposti di fascisti e antifascisti già presenti sul luogo. È importante anche la dimensione personale e per così dire la tradizione familiare.
Cosa ricorda del 12 dicembre 1969?
Floriana Maris racconta che il padre, riconosciuto, venne circondato e aggredito da un gruppetto di fascisti. Rientrò a casa verso le otto di sera, con gli occhiali rotti, una gamba dei pantaloni strappata e diverse ferite. Nonostante ciò, mantenne il suo abituale atteggiamento positivo e minimizzò l’accaduto. Le forze dell’ordine, pur presenti, non intervennero: un elemento che accrebbe la percezione del rischio di un possibile golpe. La notizia dell’aggressione fu riportata anche dal Corriere della Sera. Fin dalle prime ore, dal comportamento della polizia sembrò emergere una precisa volontà di non intervenire, lasciando operare indisturbate le forze neofasciste in un clima già pesante.
Quali erano gli obiettivi della strategia della tensione?
Per comprenderli occorre ricostruire il contesto storico, troppo spesso celebrato senza adeguata riflessione critica. L’obiettivo delle stragi era chiaro: impedire l’evoluzione democratica del Paese e ostacolare l’attuazione concreta della Costituzione repubblicana. La violenza politica mirava a creare paura, instabilità e sospetto diffuso, così da frenare ogni avanzamento democratico.
Quale significato assume oggi, nella sua memoria familiare, l’aggressione subita da suo padre la sera del 12 dicembre?
L’aggressione rappresenta un elemento rivelatore dell’atmosfera di quei giorni: non solo il clima di violenza neofascista già presente in piazza, ma anche la passività delle forze dell’ordine davanti a un atto esplicito di intimidazione politica. Nell’elaborazione familiare e nella memoria pubblica, quell’episodio diventa un segnale immediato della posta in gioco: la fragilità della democrazia e il tentativo, attraverso paura e impunità, di orientare l’opinione pubblica in senso autoritario. È proprio questo intreccio tra violenza e mancata tutela istituzionale che continua a rendere, ancora oggi, quell’episodio emblematico della strategia della tensione.